Wien, Wiener Staatsoper, "Le nozze di Figaro" di Wolfgang Amadeus Mozart
UN CABINET D'AMATEUR(S)
A Vienna è andato in scena l'allestimento delle Nozze di Figaro del Théatre des Champs Elysées di Jean–Louis Martinoty, che aveva ricevuto in Francia nel 2001 il Gran Premio della Critica. Il regista francese, ex critico musicale nonché appassionato di pittura, si pone idealmente sulla scia di Ponnelle (di cui peraltro è stato assistente) con una lettura dove il rispetto della convenzione e dello spirito del tempo convivono con un'esecuzione scenica "aggiornata", ma mai di rottura, attenta al testo e al dettaglio.
La scena di Hans Schavernoch ambienta la vicenda in un "cabinet d'amateur", ovvero la galleria di un collezionista affollata di copie di quadri famosi di varie epoche e dimensioni, inquadrata da due cornici sfalsate leggermente sbieche su cui si aprono le porte necessarie allo svolgimento drammatico. Quadri di genere, nature morte, Cristi e vanità si affastellano sul palcoscenico nero funzionando da quinte per il gioco scenico; le copie sono volutamente realizzate in toni sbiaditi dove prevalgono ocra e marroni che danno una tinta uniforme alla scena, trasmettendo un senso di pessimismo e tristezza. Non siamo forse alla fine dell'ancien régime?
L'eccesso di citazioni pittoriche pecca di un intellettualismo che nuoce alla verve del capolavoro mozartiano e ci si chiede che attinenza abbiano tutti quei quadri con la situazione drammatica. Il trompe-l'oeil è forse la metafora della "folle journée", strumento di dissimulazione che istituisce un gioco di mise en abime e vertigine dove non si distingue il vero dal falso? Forse, dato che in un sistema di facili opposizioni (finzione/verità, arte/natura) nella catarsi finale i quadri spariranno per fare spazio a un cielo luminoso incorniciato da verzure color pastello.
L'impianto scenico non è privo di fascino ed il boschetto del quarto atto è particolarmente suggestivo con le tele di fiori fiamminghi dietro cui i personaggi appaiono e scompaiono in filigrana al variare delle luci. Il gioco di sguardi e riflessi rende intellegibile la catena di turbamento innescata dallo scambio di ruoli fra le due donne (non solo amorosi quanto di rango) ed il sistema di relazioni fra i personaggi acquista nuovi significati.
Qualche riserva sulla direzione dei cantanti, fin troppo garbata, che sembra più guardare alla raffinata leggerezza di Marivaux che non alla satira pungente di Beaumarchais e che non sempre trova la giusta determinazione nelle varie situazioni sceniche. Nei primi due atti, in particolare, l'azione stenta a decollare ed è lasciata alla capacità attoriale dei singoli il compito di colmare i momenti d'indugio della regia.
Alla prima la regia è stata fischiata, mentre pieno consenso ha ottenuto la parte musicale e un cast vocale con punte di eccellenza.
Dorothea Röschmann è una Contessa di classe, che conquista per il fraseggio aristocratico e lo stile da autentica "mozartiana". Il canto luminoso e una recitazione sorvegliata (ma non per questo meno espressiva) rendono il personaggio particolarmente nobile, screziandolo di una malinconia che trova il suo apice in un crepuscolare "Dove sono i bei momenti". Perfetta.
Del Figaro di Erwin Schrott abbiamo amato l'irripetibile verve e simpatia, al suo debutto nel Conte il cantante conferma la naturale istintività scenica, ma adotta un segno negativo e crea un personaggio viziato e blasé, fondamentalmente antipatico per orgoglio di classe e istinto predatorio derivato da vanità anziché da "necessità" (vedi Don Giovanni). La voce morbida e brunita traduce protervia e maschia esuberanza e, vivificata da un fraseggio fantasioso e mutevole, contribuisce a rendere il personaggio dominante, ma poco vulnerabile e il suo smarrimento sarà come la sua preghiera, dolcissimo ma breve, dopodiché tutto tornerà come prima.
Luca Pisaroni dona a Figaro voce omogenea e sicura di bel timbro e linea impeccabile. Il canto è splendido, ma il personaggio non è compiutamente sviluppato e il giovane cantante, non supportato da una regia forte, risulta più adatto ai momenti di sfogo e inquietudine (bello "Aprite un po' quegl'occhi") che non nelle pagine dove si richiede brillante comunicativa.
Susanna Schwartz ha voce gradevole ma troppo leggera e la sua Susanna, se pur scenicamente disinvolta, risulta poco conturbante.
Emana poesia il Cherubino di Isabel Leonard, dalla sensualità sfumata e vibrante, lo sguardo da cerbiatto, le movenze delicate ma prive di affettazione. E anche il canto ricco di sfumature ne traduce il turbamento inconscio, come nella ripresa della canzonetta eseguita in un pianissimo che si spegne in un soffio.
Sorin Coliban è un Bartolo solido e divertente, Donna Ellen è una Marcellina volutamente provinciale e demodè, Benjamin Bruns è un Basilio meno petulante del solito. Un plauso alla Barbarina di Daniela Fally, dalla voce piena e screziata; non completamente a fuoco Marcus Pelz nel ruolo di Antonio.
Franz Welser-Möst ha il senso dei tempi ed il pregio di creare un ordito musicale equilibrato in cui le voci s'inseriscono armonicamente senza prevalere le une sulle altre. Se nei primi due atti la direzione risulta poco sentita nel privilegiare l'architettura musicale alle dimensioni psicologiche dei personaggi, si fa progressivamente chiaroscurata e pulsante e trova, oltre a colori e sfumature, giusta teatralità e tensione. Nel loro repertorio d'elezione i Wiener Philarmoniker confermano chiarezza esecutiva, perfezione della linea e inarrivabile trasparenza di suono.
Lunghi e calorosi applausi per tutti alla fine.
Visto a Vienna,Wiener Staatsoper, il 26.02.2011
Ilaria Bellini